Gv 9, 40a; 10, 11-16
In quel tempo. Il Signore Gesù disse ad alcuni farisei che erano con lui: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore».
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E’ profondamente pedagogico ascoltare il brano di Giovanni nel quale Gesù si racconta come “Il buon pastore” proprio nella festa che celebra l’Ordinazione Episcopale di S. Ambrogio. Questi incarnò perfettamente l’immagine dipinta da Gesù nel Vangelo di oggi, lasciando alla Chiesa di Milano e alla Chiesa tutta un’eredità formidabile.
La parola che oggi mi provoca è appartenenza. Gesù contrappone la figura del buon pastore a quella del mercenario, sottolineando che a quest’ultimo le pecore non appartengono e ciò lo rende incurante della loro sorte, le abbandona nel momento del pericolo fuggendo dal proprio compito.
Al contrario, per il buon pastore il fatto che le pecore gli appartengono genera una conoscenza, un rapporto così profondo che si traduce in affezione totale, tanto da essere disposti a dare la vita per ciascuna di loro.
Attenzione, Gesù non usa ma la parola possesso, bensì appartenenza: il possesso partirebbe dal padrone delle pecore, l’appartenenza dalle pecore stesse, è un’azione che “va verso”, è una consegna da parte delle pecore inermi che si abbandonano fiduciose tra le braccia sicure di Colui che ha cura di loro.
Cosa vuol dire quindi vivere l’appartenenza? E’ un’esperienza che tutti dovremmo fare, poiché è evidente che in questa storia noi uomini interpretiamo il ruolo delle pecore…
Mi è tornato in mente un fatto che mi ha impresso nel cuore la spiegazione di questa bella parola; appena diventata mamma del mio primo figlio, mi trovavo con altre mamme e i loro bambini a leggere qualche pagina edificante, per sostenerci in quel momento così particolare che stavamo vivendo. Ci si trovava nelle case, con i nostri neonati che ancora venivano allattati, un clima di grande familiarità e confidenza, le più esperte sostenevano le più giovani, si respirava fiducia e libertà. Un giorno, contemplando i nostri bambini che si abbandonavano sereni e sazi al sonno tra le
nostre braccia e cullati dalle nostre parole, una di noi esclamò “Dormono così tranquilli perché sanno di chi sono!”
Ecco, sapere di chi sei, a Chi appartieni, è l’esperienza più totalizzante e umanizzante che ci viene regalata nella vita; e nella vita cristiana questa esperienza si sublima nell’appartenenza a Cristo attraverso il Battesimo. Dobbiamo compiere spesso questo esercizio di memoria, ricordarci di Gesù che non ci molla perché ci ha fatti suoi, che compie le sue promesse, non cessa di aspettarci agli incroci anche pericolosi della vita… E ci tiene uniti, insieme, come un gregge che si scalda e si sostiene, che cammina sullo stesso sentiero.
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