La bellezza è negli occhi di chi contempla

Chiusura e apertura

Chiusura e apertura

Il mio vocabolario, come quello di tanti, ha rispolverato da un anno a questa parte termini che normalmente non usavo nei miei discorsi quotidiani o a cui ricorrevo molto raramente: pandemia, virologo, assembramento, immunità di gregge …

Ci sono, d’altra parte, parole più comuni, che hanno assunto particolare pregnanza nella mia vita di oggi: CHIUSURA è una di queste.

Essendo insegnante alle scuole superiori, è da molto che faccio lo slalom tra lezioni in presenza e in DAD, tra apertura e chiusura. Per me e per i miei alunni, “chiusura” è diventato sinonimo di confinamento tra le quattro pareti di una stanza, davanti ad un “condominio virtuale” (tante caselle, altrettanti inquilini). È la perdita di un contesto formidabile di socializzazione come può essere un’aula scolastica, in cui si è a stretto
contatto, in uno scambio intergenerazionale (noi prof dell’era giurassica e i ragazzi che rappresentano la modernità e il futuro), con il privilegio di poter “perdere” tempo in un’attività speculativa, che non è soggetta alla dura legge del mercato e del sistema produttivo (carmina non dant panem!).

Ogni mattina cerco di scrutare i volti che si materializzano per magia sul mio PC, affinando lo sguardo, ma soprattutto affidandomi all’intuito.

Cosa cerco? Segni di vitalità, un qualsiasi cenno di resilienza a cui fare appello per cercare di “sortirne insieme”, come diceva don Milani. Forse cerco negli occhi dei ragazzi quello che vorrei vedere nei miei.

Mi accorgo che sta diventando merce sempre più rara l’ottimismo, offuscato da un velo sempre più spesso di apatia. Quando si è rinchiusi, inizia a mancare l’aria, gli orizzonti si restringono. C’è, però, una chiusura ancor più pericolosa di quella concreta; una chiusura più insidiosa, più letale: il ripiegamento su di sé.

Questo rischio si è fatto più concreto ed è venuto allo scoperto in modo più prepotente proprio in questo lungo anno, in cui l’altro pare essersi trasformato in una possibile fonte di pericolo, un portatore di virus, di morte.

Un carattere egocentrico come il mio ha tutte le scuse per ritenere sacrosanta la scelta di concentrarsi su di sé. Il passo verso l’atrofia del cuore è subito fatto.
Per fortuna, le crisi sono anche occasioni opportune (kairòs) per arrivare al fondo di sé, per fare verità, per mettere in luce i cortocircuiti esistenziali, per aprirsi ad una svolta.

Quando ci si rende conto che il chiudersi su di sé non porta alla sperata felicità e a fare unità nella propria vita, non resta che tentare una via diversa. Non resta che aprire la porta del cuore per ossigenarlo: la stanza, “il castello interiore” -per dirla alla Santa Teresa d’Avila-, viene investita dalla luce e tutto riprende forma.

L’aspetto consolante è che dietro la porta del cuore da aprire c’è qualcuno o qualcosa che bussa:
“Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).

In fondo, siamo un po’ come Lazzaro, che è stato sottratto all’affetto delle sorelle e della sua comunità da una causa di forza maggiore, ma Gesù, che sembrava essere indifferente, entra nella stanza del nostro dolore e apre una breccia. La pietra che separa Lazzaro dalla relazione, dalla vita viene rimossa. Una apertura che implica uno sciogliere le bende, le catene di morte per riprendere a camminare, ad entrare in relazione, a sentirsi vivi.

Per ogni chiusura c’è anche un’apertura: basta percepire che qualcuno sta bussando alla porta.

Anna

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