In questa settimana Luadato Si’ diamo spazio ad un articolo un po’ speciale che ci aiuta a guardare il mondo da un punto di vista economico, scientifico, sociale molto particolare.
di Marco Ratti
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Compagnie petrolifere e ambiente: il grande inganno
Le grandi multinazionali del petrolio vogliono convincerci di aver preso sul serio la questione ambientale.
Investono cifre da capogiro in pubblicità e puntano a rendersi credibili ricorrendo al sistema dei crediti di carbonio, che dà loro la possibilità di comprare il diritto di inquinare in cambio d’investimenti in progetti ambientali che, in teoria, dovrebbero avere un impatto positivo. Ma le organizzazioni ambientaliste sono convinte che si tratti solo di un grande inganno. E quando si va alla ricerca di studi approfonditi e documenti che mettono in discussione la stessa buona fede dei giganti dell’oil&gas non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Giusto qualche giorno fa, l’11 maggio, gli attivisti di Greenpeace sono apparsi di fronte al quartier generale romano di Eni per” svelare il bluff dell’azienda che punta sul greenwashing per continuare a estrarre e bruciare impunemente gas fossile e petrolio”. A confermarlo, stando a quanto denunciato dall’organizzazione, ci sono gli investimenti programmati dalla società, “che per il 65% verteranno sui combustibili fossili. Il 20% del capitale andrà in investimenti che per l’azienda sono green, ma che includono, oltre le rinnovabili, anche attività dannose per il clima, come bioraffinerie e settore retail gas power. A energie pulite come solare ed eolico Eni destina dunque solo le briciole. Ciliegina amara sulla torta sono infine gli obiettivi di riduzione delle emissioni: mentre gli scienziati avvertono che si dovrebbe fare ogni sforzo per ridurre le emissioni entro il 2030, Eni intende rimandare ben oltre questa data il taglio della gran parte delle proprie emissioni, limitandosi a una riduzione di appena il 25% in questo decennio decisivo per le sorti del Pianeta”.
Per smontare la narrativa “green” del colosso energetico, che vede come suo maggior azionista lo Stato, Greenpeace ricorda che “il gigante italiano del petrolio è la prima azienda per emissioni di CO2 in Italia”. E ancora: “Nel 2018 Eni ha emesso complessivamente 537 milioni di tonnellate di CO2, praticamente più dell’Italia, che segnava 428 (inclusa la quota Eni di emissioni prodotte in Italia). Non solo: nel suo piano
industriale ci sono ancora quasi solo investimenti per l’estrazione di idrocarburi, mentre alle rinnovabili, tanto decantate nei propri slogan, vanno solo le briciole. Al posto di dare un taglio alla CO2 con investimenti green, la compagnia preferisce “compensare” le proprie emissioni, con riforestazione e stoccaggio di CO2: finte soluzioni, pericolose e costose, che non ci portano da nessuna parte”.
Un aspetto, quello della compensazione di emissioni attraverso l’acquisto di crediti di carbonio, approfondito dal recente report “Cosa si nasconde dietro l’interesse di Eni per le foreste”, realizzato da Recommon insieme a Greenpeace Italia.
Il problema, del resto, sembra essere diffuso al settore dell’oil&gas, che da una parte non vuole arrendersi a piani di riconversione verso forme di energia davvero pulite, ma dall’altra vuol far credere di stare lavorando per una transizione energetica.
Giusto qualche settimana fa, per esempio, le compagnie petrolifere ExxonMobil, Aramco, Chevron, Shell ed Equinor sono state accusate di utilizzare la pubblicità e le comunicazioni ufficiali per rendere più “green” ed ecosostenibili le proprie pratiche.
Secondo i documenti raccolti dagli avvocati dell’organizzazione ambientalista ClientEarth, queste operazioni di “greenwashing” rappresenterebbero un “grande inganno” per i clienti, che sarebbero così portati a ridimensionare l’impatto globale sul clima di queste società e a valutare positivamente il progressivo passaggio verso modelli di business considerati più sicuri per il clima.
Stando ai dati raccolti, la ExxonMobil starebbe “pubblicizzando i propri biocarburanti sperimentali di alghe come un modo per ridurre le emissioni dei trasporti, mentre ancora non avrebbe un obiettivo di emissioni zero a livello aziendale”.
La compagnia saudita Aramco avrebbe invece affermato di aver condotto i propri affari “in un modo che affronta la sfida del clima”, ma in realtà è il più grande emettitore di gas serra aziendale al mondo e prevede di continuare a investire nella ricerca di petrolio e gas.
La Chevron, dal canto suo, si pubblicizza come “parte della soluzione” al cambiamento climatico nonostante non abbia una strategia allineata con gli accordi di Parigi sul clima e i suoi piani per la cattura e lo stoccaggio del carbonio abbiano coperto meno dell’ 1% delle emissioni totali di carbonio nel 2019.
Per quanto riguarda la Shell, sebbene dichiari pubblicamente di investire in “biocarburanti e idrogeno a basse emissioni di carbonio” nel 2020 avrebbe stanziato solo tra i 2 e i 3 miliardi di euro per le imprese a basse emissioni di carbonio, rispetto ai 17 miliardi destinati ai combustibili fossili.
Infine la norvegese Equinor, che avrebbe parlato di una crescita della capacità rinnovabile di dieci volte entro il 2026, ma, secondo le previsioni, le energie rinnovabili rappresenteranno solo il 4% dell’energia prodotta dall’azienda entro quella data.
Le compagnie, naturalmente, contestano questi studi indipendenti, confermando il loro impegno verso una transizione energetica.
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