Senza perseveranza si può anche partire bene, ma può essere molto faticoso proseguire e, soprattutto, arrivare.
Quando nel mio lavoro o in qualche relazione accuso stanchezza, frustrazione, o il desiderio di mollare, c’è una parola che utilizzo spesso come strumento di verifica per cercare di fare discernimento: nonostante.
Mi chiedo, per esempio, se continuo ad amare il mio lavoro, nonostante quell’episodio di grande fatica che è capitato. Mi chiedo se desidero che la tale persona rimanga nella mia vita, nonostante da mesi non si faccia altro che discutere; oppure, ancora, mi domando se valga la pena proseguire in quel servizio che ho intrapreso, nonostante io non mi senta all’altezza.
Quando nel silenzio rispondo “sì” a quel “nonostante”, capisco che quella scelta è ben fondata. Intuisco che quella direzione per me è buona e devo andare avanti; sento che mi è chiesto di perseverare, sento che quella è la via della mia libertà e della mia felicità.
A ben pensarci, quel “nonostante”, quella perseveranza, risponde a due domande ben precise:
perché? E soprattutto: per chi? Perseverare non significa non mollare, non avere momenti di fatica
o cedimento. Penso che significhi, piuttosto, non perdere la direzione del nostro sguardo, recuperare l’origine e la meta di una scelta, piccola o grande che sia, anche quando queste sono coperte da fatiche o, più semplicemente, dal peso della quotidianità.
Nella lettera agli Ebrei Paolo suggerisce in modo chiaro quale direzione dare al nostro sguardo, per
poter perseverare nella nostra vita: “Corriamo con perseveranza la gara che ci è posta davanti, tenendo gli occhi su Gesù, autore e compitore della nostra fede” (Eb 12, 1-2).
Teniamo allora lo sguardo fisso su Gesù, che per primo è stato perseverante nella via indicata dal
Padre, anche nei momenti di grandissimo sconforto o dolore. Teniamo lo sguardo fisso su Gesù,
perseverante nell’Amore che ha per noi.
Silvia C.
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