La parola ‘disabilità’ è da sempre al denominatore della mia vita. Prima di raccontarvi un po’ di me, riprendo le parole dell’omelia di Giovanni Paolo II del 3 dicembre 2000 durante il Giubileo della comunità con disabile, una segnaletica nel mio percorso di crescita personale.
La fede testimoniata nell’amore e nella gratuità dona forza e senso alla vita. In nome di Cristo, la Chiesa si impegna a farsi per voi sempre più “casa accogliente”. Sappiamo che il disabile – persona unica e irripetibile nella sua eguale e inviolabile dignità – richiede non solo cura, ma anzitutto amore che si faccia riconoscimento, rispetto e integrazione: dalla nascita all’adolescenza, fino all’età adulta e al momento delicato, vissuto con trepidazione da tanti genitori, del distacco dai propri figli, il momento del “dopo di noi”. Con la vostra realtà, voi mettete in crisi le concezioni della vita legate soltanto all’appagamento, all’apparire, alla fretta, all’efficienza. Se i vostri diritti civili, sociali e spirituali vanno tutelati, è però ancor più importante salvaguardare le relazioni umane: relazioni di aiuto, di amicizia e di condivisione. Ecco perché vanno promosse forme di cura e di riabilitazione che tengano conto della visione integrale della persona umana.
La parola disabilità ha il profumo dei volti, della fatica delle persone diversamente abili che ho incontrato. Tutto inizia da una parrocchia, i campi di lavoro estivi per aiutare una famiglia che coniugava al quotidiano il verbo accogliere, ospitando per un periodo dell’estate nella propria casa persone disabili. Noi aitanti adolescenti a combattere con i muscoli e la passione le barriere architettoniche fatte di scale, di bagni non adatti, di auto non abilitate. Quella per me è stata la formazione, “l’università dell’accoglienza”, dove gli esami li ripeti più volte, non ti laurei mai, ma scopri il senso che vuoi dare alla tua vita. Quanta strada ho fatto, ho percorso la strada dell’appagamento personale, del quanto sono bravo io, per poi arrivare alla strada del servizio, al provare ad essere casa accogliente, compagno di viaggio, imparando che prima si incontrano le persone e poi si risolvono i problemi. Camminare con, camminare per, camminare sempre e comunque affianco alla vita. Dopo quel poco di tempo che dedico ai miei “amici” disabili, torno sempre a casa stanco, distrutto, ma il mio cuore trabocca di gioia, per la semplicità di essere riusciti a mangiare una pizza, per la serata passata in discoteca, per la partita allo stadio. Gli occhi di quei ragazzi dicono cose che a parole fanno fatica a dire. Leggere nei gesti, nei movimenti, l’abbraccio reciproco per il dono del tempo, della voglia che insieme si può, si può provare a se stessi che le barriere più grosse sono nella nostra testa. A volte la sento la loro sofferenza, il loro disagio soprattutto in questo periodo, e sei lì che ti mancano le parole, e cerchi di inventarti qualcosa. Qualcosa arriva sempre, per alcuni è fortuna, per me è il miracolo della solidarietà: tirare dal cilindro l’idea del video musicale, della foto con le maschere di carnevale, del corso di creazione di siti web. Ringrazio il Signore per averci fatto incontrare! non so come sarebbe stata la mia vita senza, ma sicuramente sarebbe stata diversa. La sensazione anche se breve di essere stato per qualcuno mani, gambe, testa, mi riportano al numeratore con la parola ‘amore’. Aurelio
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