Eventi meteorologici estremi, desertificazione, innalzamento del livello del mare e altre conseguenze della crisi climatica stanno costringendo milioni di persone a lasciare le proprie case.
Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), entro il 2050, tra i 200 e i 250 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare a causa di eventi legati al clima. La crisi climatica, infatti, è un fenomeno estremamente complesso, che non può essere raccontato solo dal punto di vista strettamente scientifico: ha effetti ambientali, economici, ma anche sociali e politici. E’ proprio per questo che quando osserviamo questo fenomeno non possiamo mai dimenticarci di porre la nostra attenzione anche sugli aspetti umanitari e sociali. Dobbiamo sempre ricordarci di usare la lente dell’intersezionalità, perché la crisi climatica è evidentemente un moltiplicatore di disuguaglianze su piani differenti: le comunità che ne stanno soffrendo maggiormente (MAPA=Most Affected People and Areas) sono quelle meno sviluppate rispetto al modello economico capitalista, con economie più fragili perché spesso reduci del colonialismo
occidentale.
Questi stati sono quelli che hanno meno contribuito alla crisi climatica, ma che paradossalmente ne stanno subendo le conseguenze più gravi, perché non hanno avuto la possibilità e i tempi per sviluppare strumenti e risorse per poterla fronteggiare e poter resistere. Il nuovo rapporto dell’UNHCR (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) che è stato pubblicato la scorsa settimana in occasione della COP di Baku, ha rilevato che tre su quattro delle 123 milioni persone sfollate a causa di un conflitto stanno anche lottando per resistere agli effetti devastanti e crescenti del cambiamento climatico; questo accade perché la maggior parte delle persone sfollate è ospitata in aree del mondo altamente esposte ai rischi climatici.
Il rapporto “No Escape: On the Frontlines of Climate Change, Conflict and Forced Displacement” afferma che entro il 2040 il numero di Paesi che dovranno affrontare rischi estremi legati al clima passerà da 3 a 65; prevede anche che entro il 2050 la maggior parte degli insediamenti e dei campi di rifugiati sperimenteranno il doppio dei giorni di caldo estremo.
Negli ultimi giorni il tema delle migrazioni climatiche è stato al centro di alcune discussioni che stanno avvenendo durante la Conferenza delle Parti di Baku. Le persone rifugiate e sfollate che vivono in prima linea nella crisi climatica globale hanno infatti lanciato un messaggio chiaro ai leader e ai delegati presenti alla COP 29.
“Per quanto ci sforziamo di costruire le vite che desideriamo, la lotta si fa più dura ogni giorno che passa a causa dei cambiamenti climatici”, ha dichiarato Grace Dorong, ex persona rifugiata del Sud Sudan e fondatrice della ONG Root of Generations. “Per persone come Grace, questo non è un discorso teorico; è una realtà quotidiana che ha un impatto drammatico sulle loro vite”, ha dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
La necessità di portare queste rivendicazioni durante le conferenze nasce da quella che Grandi definisce “una profonda ingiustizia”: nonostante, infatti, siano tra le persone più colpite dagli impatti dei cambiamenti climatici, le persone rifugiate e le comunità ospitanti nei Paesi colpiti da conflitti non sono raggiunti dai finanziamenti per il clima. Il rapporto rileva che il 90% dei finanziamenti per il clima è destinato ai Paesi a medio reddito e ad alto impatto ambientale, mentre solo il 2% va ai Paesi vulnerabili. Mediamente gli Stati vulnerabili ricevono solo circa 2 dollari USA a persona in finanziamenti annuali per i piani di adattamento, mentre sono 161 dollari a persona quelli che si mettono a disposizione negli Stati non fragili.
Durante le discussioni in Azerbaijan, è stata fondata la coalizione “Refugees for Climate Action” che unisce otto attiviste e attivisti per il clima rifugiati e sfollati che hanno unito le loro forze per amplificare le voci delle comunità sfollate nel dibattito globale sul clima. La rete riunisce persone provenienti da Paesi come Afghanistan, Yemen, Haiti, Bangladesh e Brasile, ognuna delle quali ha vissuto esperienze di sfollamento legate a conflitti e cambiamenti climatici, e che stanno già guidando iniziative di azione per il clima nelle loro comunità.
“Per noi il cambiamento climatico non è una minaccia astratta. È una lotta quotidiana per la sopravvivenza, la stabilità e la dignità. Chiediamo ai leader di ascoltare le nostre storie e di
intraprendere un’azione decisiva che ci includa, sostenga la nostra resilienza e dia potere alle soluzioni guidate dai rifugiati”, riferisce Najeeba Wazefadost, membro del gruppo e fondatrice dell’Asia Pacific Network for Refugees (APNOR).
L’iniziativa mette in luce l’impegno dell’UNHCR per porre le comunità sfollate al centro dell’azione per il clima, operando come organo consultivo sulle questioni climatiche e contribuendo ai principali eventi globali e locali sul clima.
Speriamo che questa nuova coalizione possa mettere al centro la dignità di ciascuna persona e favorire un approccio intersezionale e privo di dinamiche di potere per potare in modo onesto questa delicata e urgente tematica all’interno del dibattito internazionale.
Gaia Sironi
No comments yet. Be the first one to leave a thought.