“We can do no great things,
only small things with great love”
(Santa Teresa di Calcutta)
Da quando sono rientrata da Calcutta, il 29 luglio di quest’anno, dopo tre settimane di volontariato presso i centri delle Missionarie della Carità, congregazione religiosa fondata da Madre Teresa, amici e conoscenti mi chiedono spesso come è andata, cosa ho visto, quali emozioni ho provato.
Il punto è che, ad essere onesti, è davvero difficile condensare una simile esperienza in poche parole.
Non si è trattato, infatti, di un viaggio inteso solo in senso spaziale, ma di un vero e proprio “viaggio del cuore”. Spinta, tuttavia, dalla volontà di condividerlo con voi, comincio a raccontare.
Il primo passo per chi desideri diventare un volontario è la registrazione, che avviene direttamente presso Mother’s House, la Casa Madre. Passaporto alla mano, ci si presenta aspettando che le suore trascrivano i dati personali e assegnino ad ognuno il centro in cui recarsi, anche sulla base dei propri desideri. Sul pass consegnato a ciascuno, compare la data di inizio e quella di fine servizio. L’aspetto inconsueto, che lo rende diverso da quasi tutti gli altri tipi di volontariato, è che non esiste un periodo minimo da rispettare: che ci si trattenga un solo giorno o mesi interi, si viene accolti allo stesso modo, con gioia e gratuità.
Dopo la messa facoltativa delle sei, ci viene offerta una colazione a base di masala chai (tè aromatizzato indiano, a base di spezie unite al latte), e di banane, consumata tutti insieme nel cortile. I volontari sono numerosi, circa un centinaio, provenienti principalmente dalla Spagna, dagli Stati Uniti, dall’Italia. Alle sette e un quarto circa, dopo un breve momento di preghiera con le suore, partiamo in gruppi muovendoci, a seconda dei casi, a piedi o coi mezzi di trasporto.
La destinazione a me assegnata è il centro di Nirmal Hriday (letteralmente Casa del Cuore Puro), il primo tra quelli aperti a Calcutta da Madre Teresa. Chiamato anche Kalighat, dal nome del vicino tempio induista della dea Kali, che dà il nome al quartiere: è una casa fondata nel 1952 per accogliere i malati e i moribondi della città bengalese. Come prima cosa, i volontari firmano su un quaderno all’entrata, ripongono i propri effetti personali (in genere consistenti in marsupio, bottiglia d’acqua o borraccia, per resistere alla fortissima umidità, e ombrello o k-way, per ripararsi dai monsoni) in alcuni armadietti e indossano i grembiuli forniti dalle inservienti, che affiancano le suore nella gestione del centro. La suddivisione all’interno è rigida: volontari uomini nella sezione maschile, volontarie in quella femminile.
Il primo gesto che facciamo ogni mattina è quello di salutare le ospiti, che ci attendono sedute ai tavoli della sala da pranzo, se sono in grado di farlo, o stese sulle loro brande in unico grande stanzone, se sono impossibilitate. I loro corpi sono terribilmente sofferenti ed emaciati, provati dalla malattia e dalla vita precedentemente condotta in strada. Più che comunicare verbalmente, faticosissimo per via del divario linguistico, lo si fa utilizzando le mani, instaurando con le ospiti un legame tangibile e profondo insieme.
Accarezziamo i loro volti, le pettiniamo, ungiamo i loro capelli con oli emollienti, le aiutiamo ad andare in bagno, distribuiamo loro bicchieri di acqua, così necessaria nelle giornate calde, biscotti, nonché medicine, sotto gli occhi vigili delle suore.
I compiti non si esauriscono qui: c’è sempre bisogno di stendere i panni e, una volta asciugati in terrazzo, di piegarli e riporli in armadi. Le ospiti vengono lavate e cambiate dal personale ogni giorno, vestite con camicie da notte coloratissime, ricavate da scampoli di stoffa, forse per restituire un senso di vitalità all’ambiente e alle persone che le indossano. A volte le suore ci chiedono di aiutare a pesarle o a cambiarle.
Dopo una pausa tè e biscotti per i volontari, verso tarda mattinata, ci si prepara per la distribuzione del pranzo alle ospiti, in genere a base di riso, verdure e pesce o carne. A volte ci viene chiesto di scartare gli ossicini di pollo o le lische del pesce, perché le donne non si strozzino, e di imboccarle.
Alcuni di noi si occupano di lavare stoviglie, bicchieri, pentole, caraffe d’ acqua e di riporre il tutto negli scolapiatti. La giornata di volontariato si conclude intorno a mezzogiorno, quando si è aiutato a pulire la sala da pranzo e si sono accompagnate tutte le ospiti ai loro letti, perché possano riposare.
Il pranzo dei volontari è autogestito, così come il pomeriggio: c’è chi rientra al proprio alloggio (le suore non offrono ospitalità, ci si appoggia alle numerose guest – house o agli hotel della città) e chi preferisce girare per la città, benché il caldo e l’umidità siano soffocanti e non sempre lo permettano.
Alle diciotto, ci si ritrova, per chi lo desidera, all’adorazione, a Mother’s House: momento molto suggestivo, oltre che ovviamente di grande spiritualità. La cappella è divisa in due, da una parte i fedeli, dall’altra le suore che, con i loro sari bianchi e blu e la croce di argento appuntata sul petto, rimangono immerse nella preghiera, recitando litanie e salmi in inglese e, raramente, in bengalese.
Di sottofondo, i clacson dei mezzi di trasporto e, ad un certo punto, ben distinguibile, il canto del Muezzin, proveniente dalla strada, che ricorda la presenza della minoranza musulmana in città.
Prima che si chiudano le porte della Casa Madre, c’è spazio per un’ultima preghiera inginocchiati davanti alla tomba di Madre Teresa, costantemente abbellita di fiori, acquistati dai volontari presso il Flower Market della città, mercato celebre in tutta l’India.
Il giorno prima di partire ciascun volontario è ringraziato di cuore, dalle suore e dagli altri volontari, per il servizio reso.
È complesso dire quale sia il lascito di un’esperienza come quella di Calcutta.
Ne sono uscita arricchita, ma anche sopraffatta. Un binomio di dolore e di amore che arriva a toccare corde delicate, a contatto con le proprie paure, il senso di inadeguatezza, la consapevolezza di essere solo una goccia e, a volte, arrivare a non sentirsi neppure quella.
Ciò che porterò con me saranno i volti delle ospiti di Kalighat, coi loro sorrisi sdentati– ogni tanto mi sembra di scorgere qualcuna di loro in passanti sconosciute – e dei volontari, che hanno dato tutto ciò che potevano, in termini di umanità e di cuore.
Rispecchiarsi gli uni negli altri, la condivisione delle fatiche e delle gioie della giornata sono state componenti determinanti. Infine, l’incredibile spessore delle Missionarie della Carità, la loro fede ed il loro esempio ci hanno permesso di scorgere, nelle trame della sofferenza, l’amore del Signore, che ci ha sostenuto e dato forza.
Invito tutte le persone che, in questo momento della loro vita, sentono di voler fare un’esperienza del genere, intrisa di senso e di generosità, a partire. A non farsi troppe domande, a vincere la titubanza, a mollare gli ormeggi. Si tornerà a casa più consapevoli, più ricchi interiormente, ma soprattutto custodi, per il resto della propria vita, di una piccola e preziosissima scheggia di amore.
Anna Vergottini
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