Negli ultimi anni si è sentito molto parlare di giustizia climatica, ma spesso non si conosce il vero significato di questo importante termine.
Fridays For Future ha deciso di trattare della giustizia climatica nel terzo punto della campagna Ritorno al Futuro, ovvero una raccolta di 7 proposte (e un Allegato Tecnico) per ripartire dopo la pandemia, con l’obiettivo di chiedere che si rilanci l’economia, puntando sulla Transizione Ecologica per risolvere sia la crisi economica che quella climatica.
Prima di trattare della giustizia climatica, è necessario partire dalla seguente premessa: la crisi climatica genera ingiustizie.
Per esempio, ci sono delle are geografiche chiamate MAPA (MostAffected People and Areas) che sono molto più esposte di altre ai cambiamenti climatici, anche se sono le meno responsabili della loro genesi, infatti non esiste alcuna corrispondenza tra chi emette di più e chi maggiormente soffre le gravi conseguenze di quelle determinate emissioni.
Queste regioni e le rispettive popolazioni stanno quindi già subendo le conseguenze del nostro sistema predatorio basato sull’ingiustizia sociale, sui combustibili fossili e su uno sfruttamento irresponsabile delle risorse. Tra queste aree particolarmente vulnerabili ci sono molti paesi dell’Africa– in particolare quella subsahariana- l’America centrale e del Sud, il Sudest asiatico e i piccoli stati insulari in via di sviluppo.
Per valutare autonomamente quanto sia ingiusto il cambiamento climatico, vi dico che il continente africano, nel quale si verificano alcune tra le più gravi catastrofi causate dal cambiamento climatico, è responsabile è responsabile solo di un 3% delle emissioni cumulative.
Inoltre, i MAPA sono spesso molto poveri e per questo non possono avere gli strumenti adatti per fronteggiare le catastrofi causate dal surriscaldamento globale. Infatti se gli Stati Uniti, responsabili del 25% delle emissioni globali, mediamente riescono a trovare delle soluzioni alle catastrofi naturali e hanno dei mezzi per tutelare la popolazione e il territorio, paesi come il Brasile e le Filippine non hanno queste possibilità.
Questa mancanza di corrispondenza tra chi più emette e chi maggiormente soffre le conseguenze di quelle emissioni è alla base, come già anticipato prima, di un grande problema di giustizia e uguaglianza. Come sosteneva la economista Naomi Klein nel suo libro “Una rivoluzione ci salverà”, “la società è divisa fra chi con la sua ricchezza può permettersi misure non insignificanti di protezione dalla violenza meteorologica e chi non ha i mezzi per difendersi”, infatti anche all’interno di uno stesso paese ci sono le comunità più povere e marginalizzate che sono maggiormente colpite dalla crisi climatica.
In aggiunta, possiamo considerare anche un’ingiustizia di tipo intergenerazionale. La nostra Costituzione in una recente modifica dell’articolo 9 afferma che la Repubblica “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche dell’interesse delle future generazioni.” La dimensione spaziale-geografica di cui ho scritto prima non è l’unica a dover essere presa in considerazione, c’è infatti anche una dimensione temporale piuttosto significativa. Visto che gli effetti del cambiamento climatico si verificano a distanza di decenni, in questo momento la mia generazione sta scontando le conseguenze negative e disastrose di comportamenti del passato, ma saranno soprattutto le generazioni future a rischiare di veder compromesso irrimediabilmente il loro benessere economico, sanitario, sociale -se non addirittura la propria esistenza-, a causa di azioni sbagliate e gravi omissioni compiute dalle generazioni attuali.
Questi sono solo alcuni degli esempi del perché la crisi climatica crei delle ingiustizie.
Ritornando al concetto di Giustizia Climatica, questo fu nel dibattito internazionale durante la Sesta Conferenza delle Parti dell’ONU sul cambiamento climatico (COP 6) del 2000. Nel frattempo in Olanda si era aperto il ClimateJustice Summit, primo incontro internazionale dedicato alla Giustizia climatica promosso da una serie di organizzazioni sociali internazionali, durante il quale fu redatta la Call for Climate Justice che definì il cambiamento climatico una “questione di diritti”, legando il fenomeno ai principi di equità e giustizia. Un paio di anni dopo, fu creato il che proponeva all’opinione pubblica questi tre innovativi punti (e anche spunti di riflessione): in primo luogo le e comunità più colpite devono poter partecipare alla creazione delle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici; in seguito affermava che è responsabilità dei governi intervenire per fermare l’emergenza climatica così da tutelare i diritti di tutti i cittadini; infine sosteneva che le industrie che estraggono combustibili fossili devono essere ritenute responsabili degli impatti delle emissioni che hanno prodotto e continuano a produrre.
Inoltre, uno degli strumenti più rilevanti emersi negli ultimi anni per sostenere e promuoverela giustizia climatica sono i cosiddetti contenziosi climatici. Si tratta di azioni legali vere e proprie promosse a partire dalla società civile per costringere Stati e imprese a rispondere di fronte a un giudice delle azioni (o omissioni) che hanno un negativo impatto su clima e ambiente.
Tramite questi contenziosi, coloro che sono sempre stati considerati “gli inascoltati”, ovvero le persone che subiscono gli effetti più pericolosi del cambiamento climatico, possono finalmente rivendicare il loro diritto umano a un clima sicuro e stabile e quindi anche alla vita.
Dopo la fase iniziale di attivismo per la giustizia climatica, attualmente sono i movimenti di attivismo nati dal basso, come i Fridays For Future ed Extinction Rebellion, assieme ai movimenti indigeni e rurali a portare avanti le istanze della giustizia climatica all’interno del dibattito ambientalista, sottolineando che la giustizia ambientale deve necessariamente essere anche sociale.
Gaia Sironi, 16 anni
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