Il Libano è un luogo difficile da incasellare, razionalizzare. È uno Stato “asiatico” o “mediorientale”? I libanesi sono “arabi” tanto quanto è arabo un libico o un egiziano? Cosa hanno in comune un “cristiano” italiano e uno libanese?
Domande complicate, che mettono in luce due aspetti importanti:
1. la realtà è sempre più fluida e complessa, a identità contradditorie, in qualche modo, ostinatamente “sporca”;
2. Le nostre categorie e griglie di lettura spesso non sono adatte. Coltivare uno sguardo attento sul mondo, come recita questa sezione del sito, significa anche farsi provocare da una realtà come il Libano e il “mondo arabo”, per ripensare le nostre etichette.
Ecco allora che il “Medio Oriente”, una definizione un po’ etnocentrica, può diventare il mediterraneo orientale, quel “Lago di Tiberiade allargato” di cui parlava Giorgio La Pira. Un’occasione per creare prossimità, anche solo nelle parole, unendo così le sponde di continenti e realtà storicamente mai divise.
Ecco allora che “arabo” diventa un po’ come “europeo meridionale”, che vuol dire tutto e non vuol dire nulla: una categoria che unisce una donna berbera delle montagne dell’Atlas marocchino, con un Tuareg delle zone di Charles de Foucauld, con un egiziano cosmopolita di Alessandria, con un beduino che vive a due passi dal monastero di Santa Caterina ai piedi del Sinai, con un ricco sceicco saudita, con un druso del Monte Libano, con una rifugiata giordano-palestinese ad Amman, con un siriano sfollato a Damasco, con una bambina curda irachena, etc. abbracciando una diversità tanto complessa quanto ricca, che ci permette di allargare lo sguardo, di spezzare qualche pregiudizio e di invalidare molti stereotipi.
E infine, ecco che, alla luce di questo “mondo arabo” tanto complesso, anche “cristiano” acquista un nuovo senso. Che ricchezza, per noi, pensare che quel affermarsi “di Cristo” racchiude la “chiesa in uscita” marocchina, lievito e sale instancabile; la chiesa algerina, conosciuta per i suoi martiri, ma anche per i suoi frutti di dialogo incessante; la chiesa copta, così importante anche numericamente, dai cristiani che raccolgono spazzatura (zabbalin) alla periferia del Cairo a quelli che coltivano uno spirito di ecumenismo nella “Taizé copta” di Anafora; i maroniti libanesi, i caldei iracheni, i siriaci siriani, e si potrebbe andare avanti con circa una ventina di voci simili, sinteticamente chiamati “Cristiani d’Oriente”, la cui ricchezza non abbiamo ancora pienamente compreso e riconosciuto.
“Cambiare i nostri occhi di figli” significa ricordarci, ogni volta che leggiamo qualcosa su queste terre, che questa ricchezza ci è prossima, geograficamente, culturalmente, religiosamente.
Che la visita di Papa Francesco in Iraq, tra pochi giorni, sarà una visita tra “vicini”, da seguire attentamente; che l’esplosione al porto di Beirut, la disastrosa situazione del Libano, le ingiustizie nelle carceri egiziane o le guerre più o meno dimenticate in Yemen e Siria ci devono toccare tanto quanto le acque mediterranee toccano le nostre sponde.
Mi auguro di avervi consegnato qualche spunto, qualche scheggia, che vi abbia incuriosito, per andare a leggere qualcosa in più su questa eredità mediterranea che tanto ci circonda e che tanto dimentichiamo.
E mi auguro e ci auguro di avere sempre uno sguardo di speranza su questo lago di Tiberiade, affinché doni nuovi pescatori del nuovo millennio (Lc 5, 1–11), si calmino le tempeste (Lc 8, 22–25), le barche navighino a filo d’acqua, senza affondare (Gv 6, 16–21) e soprattutto, su tutte le sue sponda ci si possa nutrire del proprio lavoro, interrogandosi a vicenda sull’unica cosa che davvero conta (Gv 21,1–19).
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