Il rispetto ha a che fare con l’incontro, entra in gioco come elemento qualificante della relazione: là dove due umanità si incontrano il rispetto cerca di portare a pienezza lo scambio che sempre avviene tra l’io e il tu.
Ma qual è il rispetto che porta una relazione a maturare? E cosa invece travestendosi da rispetto chiude noi stessi e gli altri nell’aridità e nell’assenza di crescita?
Scrive Erich Fromm in “Arte di amare” che il rispetto non è né timore né terrore; esso denota, nel vero senso della parola (respicere=guardare) la capacità di vedere una persona com’è, di conoscerne la vera individualità.
Rispetto significa desiderare che l’altra persona cresca e si sviluppi per quello che è. Il rispetto, perciò, esclude lo sfruttamento: voglio che la persona amata cresca e si sviluppi secondo i suoi desideri, secondo i suoi mezzi e non allo scopo di servirmi.
Se io amo questa persona, mi sento uno con lei, ma con lei così com’è e non come dovrebbe essere per adattarsi a me.
E’ chiaro che il rispetto è possibile solo se ho raggiunto l’indipendenza; se posso stare in piedi o camminare senza bisogno di grucce, senza dover dominare o sfruttare nessuno.
Si vede qui come il rispetto vero non elimina le differenze, non chiede di non esprimere un giudizio o di cancellare qualcosa, ma fa di quella differenza, di quel giudizio, di quel “qualcosa” una occasione di sviluppo e di arricchimento, perché espressi nella logica di quell’amore liberante che può tenere insieme sensibilità diverse. Sarebbe come chiedere per “rispetto” di eliminare una festa perché qualcuno non può goderne appieno per una mancanza o un dolore o per una diversa visione od opinione. Il rispetto, quello pieno, ricorda che la soluzione non è quella di smettere di festeggiare ma di stare insieme, l’uno vicino all’altro, per saper gioire con chi è nella gioia e saper soffrire con chi è nella sofferenza.
Anna e Stefano
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