s. Alberto Magno

Mt 9, 9-13

In quel tempo. Andando via di là, il Signore Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.

 

 

Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».

 

 

Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».

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Il primo passo lo fa Gesù, che chiama Matteo e si mette a tavola con lui. Poi arrivano gli altri, che magari erano amici di Matteo, pubblicani come lui. Tutti pentiti? Forse qualcuno, ma non tutti. Tutti però si rendono conto che Gesù sta volentieri con loro, che ci tiene a loro. Sentono che Gesù a loro vuol bene, non perché sono bravi, ma perché sono loro. Sentono che non li giudica negativamente, ma li accoglie così come sono.

Questo è rassicurante e vale anche per me: Gesù non mi rifiuta quando sbaglio e continuo a sbagliare.
Ma io mi ritengo sano o malato? Giusto o peccatore?

I farisei sono sicuri di essere migliori: è con loro che il Maestro dovrebbe stare a tavola. Ma di fatto non non si mettono a tavola con Gesù.
Il giudizio di chi si sente migliore allontana l’altro. Non vuole sporcarsi le mani con l’altro. Gesù invece ha un atteggiamento diverso: ha misericordia.

Un esempio ci viene dato dai cappellani e dalle suore che lavorano coi carcerati: non li giudicano, ma stanno loro vicino, ascoltandoli, raccogliendo le loro sofferenze e accompagnandoli.

E io sono capace di accogliere gli altri quando sono emarginati, giudicati negativamente da tutti; quando li incontro, sono capace di essere attento a loro, di fermarmi con loro?