Sono anni che noi occidentali soffriamo di un tafazzismo identitario, vergognandoci della nostra cultura e delle nostre radici.
Proni allo spirito del tempo e in nome di una sedicente inclusività, ci dobbiamo continuamente inginocchiare e scusare per gli errori del nostro passato.
In questo autolesionismo miope, siamo incapaci di distinguere il loglio dal grano sano che inevitabilmente convivono nel nostro campo.
Pur animati dalle migliori intenzioni, è come se esprimessimo sfiducia nella bontà intrinseca di quel seme gettato.
La disponibilità ad accogliere chi fugge, tra mille difficoltà, è la dimostrazione che quel seme, anche in mezzo a un terreno spesso arido e inospitale, non ha mai smesso di germogliare.
“Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (2 Cor 4,7).
Pur tra infiniti errori e contraddizioni, siamo eredi di una cultura che ha sviluppato il concetto di humanitas, il concetto di persona, della sua sacralità e dell’intangibilità dei suoi diritti fondamentali; e di questa civiltà, segnata e fecondata dall’umanesimo cristiano, dobbiamo essere non dico orgogliosi (per non cadere in superbia), ma almeno consapevoli.
CDP
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