Trepidazione: un termine che ha un colorito decisamente poetico, che ormai è poco usato nel linguaggio comune. Mi viene spontaneo risalire al significato originario, che è quello del termine latino trepidatio, che di per sé vuol dire agitazione, scompiglio, confusione. Il verbo trepidare, poi, ha anche l’idea di vibrare e scuotersi tremando.
Dunque questa parola porta con sé un’immagine non esattamente serena: parla di uno stato d’animo ansioso. Direi che in questa fase della mia vita, in cui iniziano ad affacciarsi problemi di salute, esprime in modo abbastanza calzante la situazione con cui mi trovo spesso ad affrontare le varie attese di cui è fatta la quotidianità e non tutte gradevoli e gradite. Non è piacevole stare seduta nella sala attesa di un ospedale o di uno studio medico, quando c’è un problema fisico di una certa entità.
Ci sono, poi, altre situazioni che fanno stare in sospeso: una questione lavorativa, un progetto impegnativo, una relazione che va a corrente alterna … Quando si è nel pieno della maturità e si ha un carattere ansioso come il mio, sembra allora che la trepidazione abbia solo a che fare con l’agitazione e la paura. Eppure l’etimologia di questa parola allude anche ad una tensione in avanti, che oscilla tra il timore e la speranza.
Nella mia adolescenza e giovinezza ho vissuto tanti momenti di attesa in cui sentivo certamente un po’ di apprensione, ma la componente più propositiva prevaleva. Lo sguardo si apriva a qualcosa di desiderato e che quindi infondeva energia. Essendo immersa ultimamente nell’universo leopardiano per via del mio lavoro, viene spontaneo il confronto col pensiero di questo grande poeta rispetto alle illusioni giovanili, alla tensione all’infinito, al desiderio di sperimentare un piacere illimitato, costantemente deluso dall’amara consapevolezza che l’uomo può assaggiare solo gioie momentanee, limitate.
Considerazioni estremamente profonde, ma dettate da una visione dell’esistenza in cui non trova posto il Dio di Gesù, che ha reso possibile all’uomo scorgere l’infinito nel finito, ha avvicinato l’immensità e alterità di Dio alla piccolezza dell’uomo.
L’orizzonte, allora, si apre; la trepidazione diventa ad-tesa, una tensione verso l’Altro e verso l’alto.
Ammetto che non sempre sono nella disposizione d’animo di accogliere questo orizzonte più largo ed arioso, soprattutto quanto i limiti sono concreti e prosciugano le energie fisiche e mentali. Eppure, mi dico, i desideri (de -sidera cioè che vengono dalle stelle) sono ciò che anima la vita, anche la mia acciaccata e rende “intrepidi”, aggettivo che ha la stessa radice etimologica di trepidazione.
Sempre per il mio mestiere, sono immersa tutti i giorni nelle vicende degli eroi iliadici, che di sicuro sono l’emblema del coraggio, della vitalità. Uomini intrepidi di fronte alle sfide ardue che devono affrontare. Non credo, però, di potere e voler incarnare un simile atteggiamento, che sa troppo di supereroe perfetto, quanto inverosimile. Trovo forse più interessante e vero il giunco, che si piega ai soffi del vento, ma non si spezza.
Associo la trepidazione ad uno stare, sia pur fragili, nelle situazioni, l’accettare la sospensione, l’incompiutezza, che in fondo ci riporta alla nostra umanità, che è quanto di più autentico abbiamo. Certo è faticoso, ma in questo orizzonte c’è il dono dell’affidamento, del fiducioso abbandono ad un Dio, che è promessa, è benedizione, come ci ricorda l’esperienza di Abramo, anziano e con una moglie sterile, a cui viene detto che sarà padre di una moltitudine di genti più numerose delle stelle del cielo.
Qualcosa di simile accade a Maria, una giovane che viveva nella semplicità e aveva un progetto comune ad altre coetanee e si ritrova partecipe dell’opera di salvezza di Dio. Evidentemente vale la pena di vivere le trepidanti attese della nostra vita, nella fiducia che non resteranno deluse e porteranno frutto.
Anna P.
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