Quarto e penultimo appuntamento del mese missionario: oggi spazio e voce a Marco Aldo, giovane bareggese alla sua seconda esperienza con Caritas
Sono circa le 6 del mattino: qualcuno fuori dalle nostre stanze intona qualche melodia. Il mondo là fuori si è già svegliato, c’è traffico sull’unica via che porta in città, c’è trambusto nell’orfanotrofio. Alcuni ragazzini sono già pronti per andare a scuola, altri, che purtroppo non possono frequentarla, fanno colazione; altri ancora, quasi ventenni, si dirigono verso il luogo di lavoro. Le tre suore probabilmente è già da ore che cucinano, aiutate da chi, nonostante sia adulto, vive e soggiorna nel centro.
È così che l’alba arriva a Wisma Alma, orfanotrofio gestito dalle suore di Alma, che ci ospita e che si trova poco fuori dalla città di Gunungsitoli, la principale dell’isola.
Basta solo uscire dalla porta dello spazio dedicato a noi e si viene come assaliti dai bambini del centro. Nessuno parla inglese e di conseguenza abbiamo iniziato a masticare qualche parolina di indonesiano, affinché potessimo perlomeno sopravvivere.
Le attività svolte con i ragazzi, principalmente diversamente abili, erano diverse. A volte si cercava di fare lezione di inglese o matematica (imparare i numeri in indonesiano è stato complesso), altre volte si scrostava e si dipingeva con nuovi disegni qualche stanza del centro. Altre ancora, anche se nulla era programmato, si improvvisavano giochi e attività che potessero coinvolgere più persone possibili. Imparare i circa quaranta nomi sembrava un’impresa impossibile ma inaspettatamente, ancora oggi, a circa un mese dal mio ritorno li ricordo ancora tutti.
Le prime settimane forse ero ancora spaventato ed evitavo di andare in città. Superato il primo periodo, però, armato di google traduttore e del fascino del “bule” (straniero bianco), ho iniziato a prendere da solo il Becak, una sorta di taxi che consiste in un motorino con agganciata una struttura in metallo che ospita i passeggeri. Quasi tutte le volte finivo in posti diversi da quelli che in realtà volevo visitare e forse per evitare di discutere con il tassista, lasciavo correre ed esploravo le vie in cui ero stato portato, infilandomi in strane conversazioni con i sorpresi passanti e negozianti del centro di Gunungsitoli.
L’isola non è molto turistica e di conseguenza è rarissimo che dei bule girino per le vie della città.
Ricordo con piacere la festa dell’Indipendenza, in cui si inneggiava di continuo “Merdeka” (Libertà) e dove l’intero orfanotrofio era in festa oppure le visite nei villaggi, purtroppo solamente due, avvenute attraverso il progetto CBR (Community Based Rehabilitation), gestito dalla congregazione delle suore Alma in collaborazione con Caritas Italia e che consiste nella visita e nell’assistenza ai villaggi situati nell’entroterra dell’isola, immersi nella giungla che dominava tutto quanto.
Non posso scordare il Mandi, il rito con cui ci lavavamo tutti i giorni. La doccia non esiste e l’unico modo per potersi lavare è attraverso un catino che si immerge in una vasca di acqua piovana e che ci si versa addosso.
Potrei continuare all’infinito con i ricordi: dal cibo (spesso troppo piccante) alle feste che per ogni occasione venivano organizzate, alla fatiscenza degli edifici e alla genuina voglia di sorridere di ogni persona incontrata. Alle strade piene di buche e agli avventurosi viaggi sul pulmino guidato da Peter, il nostro driver di fiducia.
Se dovessi riassumere gli insegnamenti e le riflessioni che mi sono riportato a casa, forse lo farei attraverso l’immagine di un bottone (nome che abbiamo dato all’isola di Nias). Un bottone nell’oceano, un bottone a cui ho legato in qualche modo parte una piccola parte della mia vita. Un bottone a cui sono legate tutte le persone che ci abbiamo incontrato.
Insomma, un bottone che sicuramente non dimenticherò.
Marco Aldo Maggiolini
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