C’è un termite dialettale veneto, un avverbio, che nasce dalla cultura di quella terra che nei secoli ha conosciuto per lo più povertà, con una relativa dieta di sola polenta, è il termine “pasto”. Sembra strano ma questo avverbio che comunque trae origine dalla vita a tavola indica abbondanza e vuol dire: molto, assai.
E’ particolare notare come un termine, normalmente usato nella lingua italiana per indicare l’assunzione di cibo nella sua completezza anche nutritiva, venga traslato nella cultura più popolare dialettale con il significato di ricchezza.
Son partita da questa riflessione proprio perchè i momenti di convivialità sono ultimamente diventate le mie occasioni più frequenti in cui rivedo amici, così da avere anche più tempo per raccontarsi e confrontarsi.
Si usa il momento di una cena, un aperitivo, ed anche un pic nic all’aperto per scambiare due parole in tranquillità e raccontare le reciproche ricchezze di vita, i sogni del cuore ed i progetti che si vogliono realizzare.
In questi giorni ho avuto modo di rivedere una cara amica. Ci siamo conosciute in occasione di una camminata domenicale e da lì negli anni è iniziata una confidenza immediata: come se ci si conoscesse da anni. In questo ultimo periodo però anche le uscite della domenica si sono diradate, un po’ per esigenze personali, un po’ per questioni di lavoro o studio, ma comunque non manca l’occasione per sentirsi al telefono.
Proprio recentemente ci siamo incontrate per una pizza, lei rientrava da un incontro; si era rivista per un saluto con due dottoresse che 30 anni prima aveva conosciuto in occasione del suo primo ricovero per problemi alimentari, l’avevano seguita per i primi 4 mesi del suo cammino (durato quasi 10 anni), quando era ancora una ragazzina adolescente di neanche 28 kg.
E’ stato bello vedere gli occhi luminosi della mia amica mentre mi raccontava di questo incontro. Mi diceva che l’idea era partita da “un’amicizia” scambiata su Facebook; perchè non trasformare dei “like” in un’occasione per rivedersi?! Credo che ci voglia del gran coraggio nel proporre certe situazioni che fanno un po’ da viaggio nel tempo; un ritorno al passato con occhi nuovi per parlarne con la consapevolezza di aver avuto la forza di affrontare quello che anni fa faceva così paura e dava sofferenza.
Sentendo il suo racconto mi sono poi immedesimata (anche per deformazione professionale) in quelle due colleghe che l’hanno accompagnata per un po’ e poi per moltissimi anni non ne hanno saputo più nulla. Ho immaginato anche la loro emozione nell’aver di fronte ora una donna in salute e che di strada ne ha fatta veramente tanta costruendosi una vita ricca, di certo non immune alle difficoltà, ma che sa “andare oltre”, una donna forte e determinata. Mi sono immaginata i loro occhi pieni di orgoglio nell’ammirare chi avevano ora di fronte: non più un’ombra di se stessa, ma una ragazza piena di vita e progetti!
Mi è venuto spontaneo chiederle se c’era stato qualcosa o qualcuno durante quegli anni che avessero contribuito ad una svolta. E’ stato interessante sentire che in sè non c’era stato un evento o una persona particolare, indubbiamente veder morire due compagne di stanza non è stato semplice ma forse la cosa che più si ricordava era il cibo a quattro stelle che, specie dell’ultima clinica frequentata, preparavano proprio per far apprezzare il “gusto ed il piacere di mangiare”. Il cibo-medicina che diventa cibo-per-dar-piacere.
Ecco la vita “ea xé bea un pasto” (la vita è assai bella):
è da prendere essa stessa a morsi, per riuscire a rimanerne attaccati,
la si deve gustare a piccoli bocconi, per apprezzarne il sapore,
ed è una vera festa con gli amici, perché ciascuno può mettere in tavola qualcosa di proprio.
La mia amica rivedrà le due dottoresse che le hanno proposto un incontro-testimonianza con gli attuali ospiti del centro (ora purtroppo anche uomini); spero che possano vedere anche loro che ce la si può fare e che ne vale sempre e comunque la pena.
Ilaria S.
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