La bellezza è negli occhi di chi contempla

Visitare gli infermi ed essere l’infermo visitato

Visitare gli infermi ed essere l’infermo visitato

Tra le sette opere di misericordia, ce n’è una piú complicata di quanto possa sembrare a prima vista: visitare gli infermi.

L’ho scoperto quando, per un breve momento, sono stata obbligata a passare dall’altra parte dello specchio. Questa estate, per alcune settimane, ho adottato il punto di vista degli infermi. Niente di grave: un intervento programmato da tempo, con un periodo di convalescenza stimato in sei settimane.

Mi son detta che il fatto di sapere in anticipo di non poter compiere le normali attivitá quotidiane mi avrebbe permesso di organizzarmi, di pianificare le soluzioni migliori.

La rete di supporto che ci siamo costruiti in questi anni è composta quasi esclusivamente da amici circa della nostra età, lavoratori, con figli più piccoli dei miei. Sono dunque persone molto impegnate e molto occupate nella vita quotidiana, non avrei potuto chiedere loro aiuti extra. Ho chiesto dunque ai miei genitori e ai miei suoceri di venire a stare da noi in Inghilterra per qualche settimana, alternandosi fra loro. Siamo riusciti a trovare biglietti aerei a prezzi decenti ed, essendo tutti in pensione, sono riusciti ad organizzarsi per tempo con i loro impegni.

La settimana precedente l’operazione è stata abbastanza densa, ho cercato di anticipare quante più cose mi sono immaginata di non riuscire a fare poi: spese, pulizie, ultimare progetti al lavoro, passare del tempo con i figli. E’ stata una ricerca a tratti ossessiva di pianificare un futuro incerto, è stato molto destabilizzante: io e la mia famiglia sapevamo sarebbero cambiate delle cose, ma non riuscivamo ad immaginare con certezza come e cosa sarebbe successo. Avevo programmato il programmabile, ma ci son spazi di incertezza che non si possono far scomparire. Mi sono trovata a fare i conti con il dover accettare di non poter controllare tutto. Ho pregato in modo diverso, ho provato sensazioni intense pensando alla possibilitá che qualche cosa non andasse nel migliore dei modi.

Colazione in ospedale

Il giorno dell’operazione è arrivato. In ospedale è andato tutto bene, ma tra il prima e il dopo, il mio punto di vista si è capovoltoDopo oltre otto anni in UK, la lingua non è più una barriera, almeno nella quotidianitá. Ma mi son trovata a dover parlare con i medici, a descrivere sintomi e parti anatomiche, parlare di sensazioni a cui non sapevo dare un nome, mi son dovuta aiutare con i siti internet.

Traduttori o meno, ho fatto i conti con i miei limiti. Linguistici e fisici.

Riposare può essere estremamente faticoso.

Non è facile dipendere dagli altri e farsi aiutare nelle azioni quotidiane, di solito non ci si pensa e si danno per scontate. Invece mi sono trovata a dipendere dagli altri per tutto e accettare che gli altri mi aiutassero. All’inizio è piacevole sentirsi trattati con attenzione. Poi mi son accorta di quanto possa essere difficile farsi aiutare.

Se qualcuno ci aiuta, razionalmente si prova gratitudine, ma vedere che gli altri fanno tutto al proprio posto, rischia di farci sentire inutili, un peso, per persone che avrebbero potuto impiegare il loro tempo e le loro energie per altro. Vedevo come si stancavano e io non potevo aiutarli. Gli altri agivano e io mi limitavo a guardare il mondo dalla finestra della camera. Sono sempre stata abbastanza attiva e autonoma, abituata ad aiutare insieme agli altri, in parrocchia, nei campi di lavoro in Italia e all’estero, in ogni situazione comunitaria, non mi sono mai tirata indietro se dovevo “sporcarmi le mani”.

Questa volta mi son trovata dall’altra parte. Lasciarsi aiutare è stato difficile come e piú dell’aiutare gli altri.

Non solo. Mi sono anche accorta che può succedere che l’aiuto che si chiede e quello che si offre non siano sintonizzati. Le persone che aiutano, a volte proiettano i loro desideri, senza ascoltare veramente. Un grande insegnamento. Mi sono chiesta se tutte le volte che ho “agito” per gli altri ho veramente incontrato il loro bisogno. Quando si va da uno sconosciuto, a volte di un’altra cultura, lontano da noi per etá e costumi, può accadere di aiutarlo nel modo sbagliato. Quando si va in missione in paesi lontani, quando si aiuta gente che arriva con il proprio bagaglio culturale, non bisogna per forza mettersi “al posto di”, ma mettersi “accanto a”, a volte bisogna solo “conoscere e riconoscere” le differenze, per aiutare meglio. 

Ho riflettuto sul fatto che a fin di bene, per aiutare, a volte si finisce per invadere l’altro, per imporre un aiuto di cui magari non sente il bisogno, ignorando le sue prioritá.

A volte, inoltre, chi aiuta vuole a tutti i costi “fare”, anche quando l’infermo cerca di “essere” con l’altro. Certo, l’aiuto pratico è fondamentale, ma in alcuni momenti serve molto di piú passare del tempo insieme a qualcuno che ricevere un’azione “pratica”. Il fatto di non poter fare nulla, di sentirsi un peso, conduce a sentirsi un’oggetto, un soprammobile o un animale ferito, non una persona.

Prendersi cura dell’altro è a volte semplicemente mettersi al suo fianco, ascoltare, passare del tempo insieme e riuscire a riconoscere che anche il curato sta interagendo e donando quel che può, un sorriso, il tempo, un discorso.

Sono molto grata di come sia andato questo periodo particolare della mia vita. Non solo perché la salute è importante, ma anche per le interazioni significative e nuove che si sono innescate tra tante persone che ho la fortuna di avere attorno fisicamente e virtualmente. Sì, anche virtualmente. In fondo anche una semplice telefonata o un messaggio o una videochiamata permettono di visitare gli infermi. Le opere di misericordia si aggiornano al passo coi tempi.

Maria

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